lunedì 12 novembre 2012

IL SANGUE NON SI CANCELLA di Enrico Maria Tomassi



Questo è il primo movimento di massa della storia che non sta chiedendo niente per se stesso, vuole solo giustizia per il mondo.(Susan George, economista)


La globalizzazione è un fenomeno inevitabile: si tratta del normale incremento nel tempo delle relazioni e degli scambi a livello internazionale. E’ un fenomeno che investe diversi fronti, da quello politico a quello culturale, da quello sociale a quello giuridico, ecc.
Sul piano economico il termine globalizzazione serve a indicare vari fattori: l’abbattimento delle barriere commerciali; l’aumento dei volumi del commercio internazionale; la maggiore integrazione economica tra paesi; la mobilità internazionale dei capitali; la liberalizzazione del mercato del lavoro; l’ampliamento degli sbocchi delle merci sui mercati. Presa così la globalizzazione non è nient’altro che la creazione di un enorme mercato che riesca a coprire l’intero globo, un mercato a cui chiunque può accedere.
Ma si sa, in economia il fattore uomo è molto influente su qualsiasi tipo di mercato. E’ l’uomo che crea e dà sempre più potere alle multinazionali, imprese che organizzano la loro produzione almeno in due paesi diversi. E’ l’uomo che guida queste società a caccia di sempre più profitto, spostando la produzione dai paesi industrializzati a quelli in via di sviluppo, zone dove spesso i diritti umani non sono garantiti e dove i salari da pagare sono davvero bassi, a volte quasi irrisori.
La globalizzazione pilotata da queste multinazionali non porterebbe benefici né per la popolazione dei paesi industrializzatiné per quella deipaesi in via di sviluppo, provocando al contrario la distruzione di buona parte dell’economia di entrambe.

Per questo persone di ogni età, nazionalità, lingua, religione o opinione politica, si ritrovavano a Genova quel terzo week end di Luglio 2001, mentre i capi delle otto potenze più industrializzate del mondo decidevano le sorti della globalizzazione economica.I manifestantierano tutti lì per chiedere a quegli otto uomini giustizia per il mondo: una serie di regole internazionali per moderare il fenomeno della globalizzazione, ponendo maggiore attenzione all’uomo e all’ambiente. Si facevano chiamare Movimento No-global: un insieme internazionale di gruppi studenteschi, organizzazioni non governative, partiti politici, sindacati, movimenti religiosi, associazioni ambientaliste, centri sociali,movimenti femministi, oppure singoli individui, illuminati sul lato oscuro della globalizzazionemagari dopo aver letto NO LOGO della giornalista Naomi Klein. Marciavano colorati, cantando, suonando, ballando e urlando slogan in maniera pacifica.
Poi c’erano i BlackBloc, un gruppo d’individui armati e vestiti di nero che adotta l’omonima tattica: cercare lo scontro diretto con le forze dell’ordine e distruggere sedi istituzionali, banche, vetrine di negozi di multinazionali e pompe di benzina, tutti simboli del capitalismo alla guida della globalizzazione. Non si tratta di un movimento con una precisa ideologia politica, ma di un ammasso di violenti che s’infiltrano all’interno di manifestazioni pacifiche, danno origine a scene di guerriglia urbana, distruggono tutto e poi scappano via.

Camminavo nella nebbia quel tardo pomeriggio del 4 Novembre, mentre stretto nel bavero della mia giacca andavo a vedere Diaz– Don’t clean upthisblood al Circolo Culturale Prenestino Roberto Simeoni.
Quel fumo denso lo ritrovai proiettato sullo schermo, ma stavolta si trattava di quello dei lacrimogeni o di quello delle macchine date alle fiamme. Poi le urla di guerra, le vetrine spaccate dai BlackBloc e la carica dei Carabinieri in Via Tolemaide. In Piazza Alimonda ci scappa il morto: si chiama Carlo Giuliani, un ragazzo genovese di soli 23 anni. A ucciderlo con un colpo di pistola un impaurito Carabiniere ausiliario di due anni più piccolo. La notizia fa il giro del mondo. Genova appare nei tg e sulle prime pagine dei giornali come una città blindata dove si respira aria di guerra.
Alcuni partono, altri restano, mentre altri ancora arrivano.

Inizia così il film di Daniele Vicari, raccontando le vite di chi ruota intorno al Genoa Social Forum, l’organizzazione che durante il G8 di Genova aveva il compito di gestire l’enorme flusso di manifestanti provenienti da tutto il mondo.
I volontari del Forum organizzano le riunioni e i cortei, forniscono assistenza legale e logistica, e indirizzano i manifestanti negli alloggi messi a disposizione dal Comune di Genova.
Qualcuno chiede “Per dormire stanotte?”, qualcun altro risponde “Alla Diaz, c’è ancora posto.”.
Poi le cariche della Polizia sul Lungomare di Genova. Questa scena non è ricostruita attraverso la finzione cinematografica, ma quelle che vengono mostrate sono le reali immagini girate dai manifestanti travolti brutalmente della Celere. Giornalisti inviati da qualche testata, freelance, oppure semplici video amatori riprendono ogni istante della carica. Si arrampicano sugli alberi, alzano le mani e gridano “Non violenza! Per favore!” mentre cercano di sfuggire ai poliziotti inferociti, che comunque riescono a raggiungerli e a picchiarli a sangue con i manici deitonfa. Gli scontri durano ore.
Nel tardo pomeriggio una pattuglia passa per Via Battisti, proprio davanti la scuola Diaz. La sua corsa viene rallentata. Volano urla, insulti da parte dei manifestanti, e una bottiglia di vetro, che il regista tiene sospesa in aria per più di mezzo minuto prima di farla andare in mille pezzi vicino la ruota del Land Rover della Polizia.Sarà quella bottiglia il motivo scatenante dell’inferno nella Diaz. La scena dura un paio di minuti. L’auto riparte sgommando. Non ci sono feriti. O meglio, non ci sono altri feriti.
Al tramonto di sabato 21 Luglio si chiude il G8, e il bilancio dei feriti ammonta a poco meno di 300.
Quella sera si riuniscono gli organizzatori del Genoa Social Forum: la loro discussione è incentrata sui BlackBloc e sulla mancanza di un sevizio d’ordine all’interno dell’organizzazione che avesse diviso i pacifici dai violenti, mentre non si tengono in considerazione problemi seri, come quello dei diritti degli arrestati, del deflusso dei manifestanti e del malcontento dei Genovesi.
Intanto le forze dell’ordinedecidono di fare irruzione nella Diaz. Il pretesto è l’aggressione alla pattuglia di qualche ora prima. I vertici della Polizia stabiliscono che quella scuola non è l’alloggio dei manifestanti, ma il covo dei BlackBloc: chiunque si trovi lì dentro è un elemento pericoloso, forse solo perché veste in modo strano e beve birra.
Poco prima di mezzanotte, circa 300 poliziotti armati di caschi, scudi e tonfa sfondano le porte della Diaz. Sembrano una mandria di bestie inferocite che distruggono tutto ciò che incontrano al loro passaggio, comprese le vite di chi alza le mani e grida “Non violenza!”. Il pavimento si trasforma in un lago di sangue sotto i colpi di quei poliziotti, che presi da un furioso sadismo non sanno fermarsi neanche quando gli viene ordinato di smettere.I corpi insanguinati dei manifestanti svenuti vengono ammassati come fossero cadaveri raccolti su un campo di battaglia.
In quella scuola non ci sono i BlackBloc, ma 93 manifestanti vengono comunque arrestati. Alcuni sono trasportati in ospedale, altri nella Caserma di Bolzaneto. Quello che vivono non è l’ultima mezz’ora di un film, ma un incubo vero che dura ore e ore. Le torture inflitte ai manifestanti in quella Caserma credo di averle viste solo nella prigione di Abu Ghraib in Iraq.

Di un film non si racconta mai la fine. Ma questo non è un film, è una storia vera, che a distanza di 11 anni, non riesce ancora a trovare la sua fine.
Dei circa 300 poliziotti partecipanti all’operazione della scuola Diaz, solo 29 sono stati imputati e processati. Di questi, solo 25 sono stati condannati in primo e secondo grado. La loro pena ammonta complessivamente a 98 anni e 3 mesi di reclusione. Le Corte di Cassazione ha confermato le condanne di17 imputati, mentre per gli altri 8 i reati sono caduti in prescrizione.
Dei 54 imputati e processati per i fatti della Caserma di Bolzaneto, ne sono stati condannati 44. La pena è di natura pecuniaria, e ammonta complessivamente a più di 10 milioni di Euro.

Delle manifestazioni di violenza del G8 di Genova ormai si sa tutto. Gli occhi del mondo erano puntati su quella città quel terzo week end di Luglio. Con i milioni di filmati in circolazione è possibile ricostruire, secondo per secondo,intere parti di quei giorni. Le testimonianze di chi ha vissuto quei tre giorni, invece, permettono di ricostruire quelle parti sfuggite alle telecamere.
Su tutto questo si basa anche la ricostruzione di Vicari. Eppure il suo film ha incontrato una serie di ostacoli, sia in fase di produzione che in quella di distribuzione.
DiazDon’t clean upthisblood è stato interemente prodotto dalla casa di produzione cinematografica italiana Fandango, dalla francese LePacte e la rumena Mandragora. Nessun altro si è interessato alla produzione di questo film.
Per quanto riguarda la distribuzione, in Italia è uscito in sole 200 copie e non tutti i cinema hanno deciso di proiettarlo. Inoltre nessuna emittente televisiva si è dimostrata interessata, almeno per ora, all’acquisto dei diritti del film, quindi con molta probabilità Diaz non passerà in tv. Il film ha fatto il giro dell’Italia soprattutto grazie ad associazioni e circoli, proprio come il Circolo Culturale Prenestino Roberto Simeoni.
Nonostante tutti questi sforzi, molti hanno scelto comunque di non vederlo, bollandolo come film di sinistra: un film schierato politicamente, un film che distorcerebbe in qualche modo la realtà dei fatti per supportare un’ideologia, anche se ormai le ideologie politiche nel nostro paese sembrano tramontate da un pezzo. Eppure la critica, di qualsiasi colore politico, l’ha definito come un film veritiero, un film che, attraverso i video originali e la ricostruzione cinematografica, riesce a comunicare la verità cruda delle violenze orribili compiute prima nella scuola Diaz, e poi nella Caserma di Bolzaneto.

Amnesty International ha definito queste drammatiche vicende come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale”.
Dire che la ricostruzione di Daniele Vicari sia solo un film schierato politicamente, è un po’ come affermare nel 2012 che quella raccontata da Steven Spielberg con Schindler’sList sia solo una favola.

DiazDon’t clean upthisblood è un film da vedere, per ricordare che l’uomo occidentale moderno, quell’uomo che si definisce amante della democrazia e della pace, è ancora in grado di compiere azioni disumane.
Diaz – Don’t clean upthisblood è un film da vedere, per ricordare il sangue versato di chi, in un paese democratico e amante della pace, ha provato a manifestare la propria idea pacificamente. Un sangue innocente che torna a macchiare la storia, non solo del nostro paese. Un sangue che non può essere cancellato.


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