Questo è il primo movimento di
massa della storia che non sta chiedendo niente per se stesso, vuole solo
giustizia per il mondo.(Susan
George, economista)
La globalizzazione è un fenomeno inevitabile: si tratta del normale incremento nel tempo delle
relazioni e degli scambi a livello internazionale. E’ un fenomeno che
investe diversi fronti, da quello politico a quello culturale, da quello
sociale a quello giuridico, ecc.
Sul piano economico il termine globalizzazione
serve a indicare vari fattori: l’abbattimento delle barriere commerciali; l’aumento
dei volumi del commercio internazionale; la maggiore integrazione economica tra
paesi; la mobilità internazionale dei capitali; la liberalizzazione del mercato
del lavoro; l’ampliamento degli sbocchi delle merci sui mercati. Presa così la globalizzazione non è nient’altro che la
creazione di un enorme mercato che riesca a coprire l’intero globo, un mercato
a cui chiunque può accedere.
Ma si sa, in economia il fattore
uomo è molto influente su qualsiasi tipo di mercato. E’ l’uomo che crea e dà
sempre più potere alle multinazionali, imprese che organizzano la loro
produzione almeno in due paesi diversi. E’ l’uomo che guida queste società a
caccia di sempre più profitto, spostando la produzione dai paesi
industrializzati a quelli in via di sviluppo, zone dove spesso i diritti umani
non sono garantiti e dove i salari da pagare sono davvero bassi, a volte quasi
irrisori.
La globalizzazione pilotata da queste multinazionali non porterebbe benefici
né per la popolazione dei paesi industrializzatiné per quella deipaesi in via
di sviluppo, provocando al contrario la distruzione di buona parte dell’economia
di entrambe.
Per questo persone di ogni età, nazionalità, lingua, religione o
opinione politica, si ritrovavano a Genova quel terzo week end di Luglio 2001,
mentre i capi delle otto potenze più industrializzate del mondo decidevano le
sorti della globalizzazione economica.I manifestantierano tutti lì per chiedere
a quegli otto uomini giustizia per il
mondo: una serie di regole internazionali per moderare il fenomeno della
globalizzazione, ponendo maggiore attenzione all’uomo e all’ambiente. Si
facevano chiamare Movimento No-global: un
insieme internazionale di gruppi studenteschi, organizzazioni non governative,
partiti politici, sindacati, movimenti religiosi, associazioni ambientaliste,
centri sociali,movimenti femministi, oppure singoli individui, illuminati sul
lato oscuro della globalizzazionemagari dopo aver letto NO LOGO della giornalista Naomi Klein. Marciavano colorati,
cantando, suonando, ballando e urlando slogan in maniera pacifica.
Poi c’erano i BlackBloc,
un gruppo d’individui armati e vestiti di nero che adotta l’omonima tattica:
cercare lo scontro diretto con le forze dell’ordine e distruggere sedi istituzionali,
banche, vetrine di negozi di multinazionali e pompe di benzina, tutti simboli
del capitalismo alla guida della globalizzazione. Non si tratta di un movimento
con una precisa ideologia politica, ma di un ammasso di violenti che
s’infiltrano all’interno di manifestazioni pacifiche, danno origine a scene di
guerriglia urbana, distruggono tutto e poi scappano via.
Camminavo nella nebbia quel tardo
pomeriggio del 4 Novembre, mentre
stretto nel bavero della mia giacca andavo
a vedere Diaz– Don’t clean upthisblood
al Circolo Culturale Prenestino Roberto
Simeoni.
Quel fumo denso lo ritrovai
proiettato sullo schermo, ma
stavolta si trattava di quello dei lacrimogeni o di quello delle macchine date
alle fiamme. Poi le urla di guerra, le vetrine
spaccate dai BlackBloc e la carica
dei Carabinieri in Via Tolemaide. In Piazza Alimonda ci scappa il morto: si
chiama Carlo Giuliani, un ragazzo genovese di soli 23 anni. A ucciderlo con
un colpo di pistola un impaurito Carabiniere ausiliario di due anni più
piccolo. La notizia fa il giro del
mondo. Genova appare nei tg e sulle prime pagine dei giornali come una città
blindata dove si respira aria di guerra.
Alcuni partono, altri restano, mentre altri ancora arrivano.
Inizia così il film di Daniele
Vicari, raccontando le vite di chi ruota intorno al Genoa Social Forum,
l’organizzazione che durante il G8 di Genova aveva il compito di gestire
l’enorme flusso di manifestanti provenienti da tutto il mondo.
I volontari del Forum organizzano le riunioni e i cortei, forniscono
assistenza legale e logistica, e indirizzano i manifestanti negli alloggi messi
a disposizione dal Comune di Genova.
Qualcuno chiede “Per dormire stanotte?”, qualcun altro
risponde “Alla Diaz, c’è ancora posto.”.
Poi le cariche della Polizia sul Lungomare di Genova. Questa scena non è
ricostruita attraverso la finzione cinematografica, ma quelle che vengono
mostrate sono le reali immagini girate dai manifestanti travolti brutalmente
della Celere. Giornalisti inviati da qualche testata, freelance, oppure
semplici video amatori riprendono ogni istante della carica. Si arrampicano sugli
alberi, alzano le mani e gridano “Non
violenza! Per favore!” mentre cercano di sfuggire ai poliziotti inferociti,
che comunque riescono a raggiungerli e a picchiarli a sangue con i manici deitonfa.
Gli scontri durano ore.
Nel tardo pomeriggio una pattuglia passa per Via Battisti, proprio
davanti la scuola Diaz. La sua corsa viene rallentata. Volano urla, insulti da
parte dei manifestanti, e una bottiglia di vetro, che il regista tiene sospesa in
aria per più di mezzo minuto prima di farla andare in mille pezzi vicino la
ruota del Land Rover della Polizia.Sarà quella bottiglia il motivo scatenante
dell’inferno nella Diaz. La scena dura un paio di minuti. L’auto riparte
sgommando. Non ci sono feriti. O meglio, non ci sono altri feriti.
Al tramonto di sabato 21 Luglio si chiude il G8, e il bilancio dei
feriti ammonta a poco meno di 300.
Quella sera si riuniscono gli organizzatori del Genoa Social Forum: la
loro discussione è incentrata sui BlackBloc
e sulla mancanza di un sevizio d’ordine all’interno dell’organizzazione che avesse
diviso i pacifici dai violenti, mentre non si tengono in considerazione problemi seri, come quello dei diritti
degli arrestati, del deflusso dei manifestanti e del malcontento dei Genovesi.
Intanto le forze dell’ordinedecidono di fare irruzione nella Diaz. Il
pretesto è l’aggressione alla pattuglia di qualche ora prima. I vertici della
Polizia stabiliscono che quella scuola non è l’alloggio dei manifestanti, ma il
covo dei BlackBloc: chiunque si trovi
lì dentro è un elemento pericoloso, forse solo perché veste in modo strano e beve birra.
Poco prima di mezzanotte, circa 300 poliziotti armati di caschi, scudi
e tonfa sfondano le porte della Diaz. Sembrano una mandria di bestie inferocite
che distruggono tutto ciò che incontrano al loro passaggio, comprese le vite di
chi alza le mani e grida “Non violenza!”.
Il pavimento si trasforma in un lago di sangue sotto i colpi di quei poliziotti,
che presi da un furioso sadismo non sanno fermarsi neanche quando gli viene
ordinato di smettere.I corpi insanguinati dei manifestanti svenuti vengono
ammassati come fossero cadaveri raccolti su un campo di battaglia.
In quella scuola non ci sono i BlackBloc,
ma 93 manifestanti vengono comunque arrestati. Alcuni sono trasportati in
ospedale, altri nella Caserma di Bolzaneto. Quello che vivono non è l’ultima mezz’ora di un film, ma un incubo vero che dura ore e ore. Le torture inflitte ai manifestanti in
quella Caserma credo di averle viste solo nella prigione di Abu Ghraib in Iraq.
Di un film non si racconta mai la
fine. Ma questo non è un film, è una
storia vera, che a distanza di 11 anni, non riesce ancora a trovare la sua
fine.
Dei circa 300 poliziotti partecipanti all’operazione della scuola Diaz,
solo 29 sono stati imputati e processati. Di questi, solo 25 sono stati condannati
in primo e secondo grado. La loro pena ammonta complessivamente a 98 anni e 3
mesi di reclusione. Le Corte di Cassazione ha confermato le condanne di17
imputati, mentre per gli altri 8 i reati sono caduti in prescrizione.
Dei 54 imputati e processati per i fatti della Caserma di Bolzaneto, ne
sono stati condannati 44. La pena è di natura pecuniaria, e ammonta
complessivamente a più di 10 milioni di Euro.
Delle manifestazioni di violenza del G8 di Genova ormai si sa tutto.
Gli occhi del mondo erano puntati su quella città quel terzo week end di
Luglio. Con i milioni di filmati in
circolazione è possibile ricostruire, secondo per secondo,intere parti di quei
giorni. Le testimonianze di chi ha vissuto quei tre giorni, invece, permettono
di ricostruire quelle parti sfuggite alle telecamere.
Su tutto questo si basa anche la ricostruzione di Vicari. Eppure il suo
film ha incontrato una serie di ostacoli, sia in fase di produzione che in
quella di distribuzione.
Diaz – Don’t clean upthisblood
è stato interemente prodotto dalla casa di produzione cinematografica italiana Fandango, dalla francese LePacte e la rumena Mandragora. Nessun altro si è interessato alla produzione di questo
film.
Per quanto riguarda la
distribuzione, in Italia è uscito in sole 200 copie e non tutti i cinema hanno
deciso di proiettarlo. Inoltre nessuna emittente televisiva si è dimostrata
interessata, almeno per ora, all’acquisto dei diritti del film, quindi con molta
probabilità Diaz non passerà in tv. Il
film ha fatto il giro dell’Italia soprattutto grazie ad associazioni e circoli,
proprio come il Circolo Culturale Prenestino
Roberto Simeoni.
Nonostante tutti questi sforzi, molti hanno scelto comunque di non vederlo, bollandolo come film di sinistra: un film schierato
politicamente, un film che distorcerebbe in qualche modo la realtà dei fatti per
supportare un’ideologia, anche se ormai le ideologie politiche nel nostro paese
sembrano tramontate da un pezzo. Eppure
la critica, di qualsiasi colore politico, l’ha definito come un film veritiero,
un film che, attraverso i video originali e la ricostruzione cinematografica,
riesce a comunicare la verità cruda delle violenze orribili compiute prima
nella scuola Diaz, e poi nella Caserma di Bolzaneto.
Amnesty International ha
definito queste drammatiche vicende come “la
più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dalla
fine della Seconda Guerra Mondiale”.
Dire che la ricostruzione di Daniele
Vicari sia solo un film schierato politicamente, è un po’ come affermare nel
2012 che quella raccontata da Steven
Spielberg con Schindler’sList sia
solo una favola.
Diaz – Don’t clean upthisblood è un film da vedere, per ricordare che
l’uomo occidentale moderno, quell’uomo che si definisce amante della democrazia
e della pace, è ancora in grado di compiere azioni disumane.
Diaz – Don’t clean upthisblood
è un film da vedere, per ricordare il sangue versato di chi, in un paese
democratico e amante della pace, ha provato a manifestare la propria idea
pacificamente. Un sangue innocente che torna a macchiare la storia, non solo
del nostro paese. Un sangue che non può essere cancellato.
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